Un
articolo di Andrea Riccardi su Avvenire è la dichiarazione di resa
incondizionata di una “chiesa” ormai incapace di comprendere ciò che
accade. Invece sul laico Corriere, Angelo Panebianco ci riporta alla
realtà. Riproponiamo un articolo di Alessandro Gnocchi, pubblicato quasi
due anni fa, ma assolutamente attuale.
di Paolo Deotto
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Non
perdiamo il tempo a leggere le dichiarazioni di (OMISSIS) sul crimine
consumato nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, a Rouen. Lo stracco
copione (MAI nominare l’islam, misericordia, riconciliazione, ecc.) si
ripete, e chi vuole può goderselo (si fa per dire) sul sito vaticano (http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2016/07/26/0539/01238.html ).
È assai più interessante ciò che scrive oggi sul quotidiano della Cei, Avvenire, Andrea Riccardi,
uomo che perfettamente incarna il modello di intellettuale cattolico
(?) affermato, di uomo di potere in quota cattolica (?). Riccardi non ha
alcun dubbio (i neretti sono nostri): “È un gesto rivelatore della disumanità dei terroristi e della loro assoluta mancanza di senso religioso, che invece abita in molti musulmani
con il rispetto degli «uomini di Dio» e della preghiera. Giovani,
folli, ingabbiati nella logica totalitaria dell’odio e nella propaganda
del Daesh, hanno compiuto questo atto cruento”.
Chiaro, no? Non c’è odio religioso,
assolutamente, i musulmani sono bravi e pieni di senso religioso… e poi,
la solita tranquillizzante parola, che sistema tutto e tranquillizza
tanto: “folli”. Insomma, anzitutto state
tranquilli: è stato un atto di follia; invece noi, tanto sani ed
equilibrati, siamo in grado di resistere.
Come? Ma è chiaro: “La Chiesa non
scende in campo con i populisti contro l’islam. Ieri l’hanno colpita
quanti sono imbevuti nell’odio della guerra santa, per trascinarla nello
scontro e farla uscire dal suo atteggiamento sapiente e materno”.
E non manca naturalmente la professione di correttezza politica: “La
porta aperta delle nostre chiese – quella attraverso cui sono entrati
gli assassini di padre Hamel – contrasta con il moltiplicarsi di
chiusure, di cancelli, di muri, frutto della paura”.
Che sventati i combattenti di Lepanto, di Vienna! Erano convinti di combattere a difesa della Fede, e invece, ci ricorda Andrea Riccardi, “Con grande chiarezza, la Chiesa di Francia e quella universale – da Giovanni Paolo II a Francesco
– non hanno mai riconosciuto l’esistenza di una guerra di religione tra
Occidente (cristiano) e islam. Nel gennaio 2002, dopo gli attentati
dell’11 settembre, papa Wojtyla chiamò i leader religiosi a pregare per
la pace a Assisi. Prima, volle un giorno di digiuno dei cattolici in
coincidenza con la fine del Ramadan”. E in questo Riccardi ha ragione. Lo abbiamo scritto più volte: (OMISSIS) non è che il liquidatore, di basso livello finché si vuole, ma il liquidatore, di un disastro che ha radici antiche.
Serve un laico come Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera per riportarci con i piedi per terra, per guardare la realtà. Fin dal titolo: “Le troppe realtà negate nella guerra degli islamisti”. Panebianco è così scorretto da parlare di “guerra santa islamica” e da avvertire che il tentativo di relegare nell’ambito psichiatrico questi crimini è una fuga dalla realtà.
Addirittura Panebianco ricorda che “In
un certo senso, i jihadisti hanno ragione: perché, pur quasi scomparsa
dalla coscienza di tanti europei, forse la maggioranza, la religione
cristiana ha comunque forgiato il mondo europeo e occidentale”.
Ma andiamo alla chiusura dell’editoriale di Angelo Panebianco: “C’è un problema per le classi politiche che
devono affrontare l’emergenza. C’è un problema per gli intellettuali,
molti dei quali ancora impantanati, quando si parla di Islam, nelle
trappole del politicamente corretto. E c’è un problema per le Chiese cristiane, quella cattolica in primis.
L’impressione è che, per ragioni essenzialmente geo-religiose, una
parte della Chiesa (non tutta certamente) si sia rassegnata a dare per
perduta l’Europa secolarizzata, ad assumerla come definitivamente
dimentica della sua tradizione cristiana, e che per questo stia
scommettendo su altre aree del mondo. Perdendo di vista il fatto che un
Cristianesimo che allentasse troppo i suoi legami con l’Europa
diventerebbe molto diverso da ciò che è stato. Se questa impressione
fosse esatta, allora bisognerebbe dire che quella parte della Chiesa
starebbe commettendo un grave errore. L’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe aprirle gli occhi”.
È chiaro: Panebianco fa un’analisi
politica dei fatti, non religiosa. Ma la fa con l’onestà di guardare ai
fatti e ricordando ciò che troppi, Chiesa in testa, hanno per comodità
dimenticato. Del resto, nemmeno Andrea Riccardi fa un’analisi religiosa
dei fatti; si limita ad applicare gli slogan del pensiero unico
dominante.
Il problema è questo: vedere la realtà, o
negarla. Negarla può essere comodo al momento, ma porta solo disastri
per il domani. E non è di certo un atteggiamento intelligente e
religioso. È solo un tributo al conformismo che, negata la Fede, diventa
il tranquillizzante rifugio per una “pace”, peraltro solo umana e che
del resto non si raggiunge lo stesso, nemmeno con tante belle preghiere
“interreligiose”. Essere in guerra e negare di esserci è semplicemente un suicidio.
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Quasi due anni fa, il 20 settembre 2014, riprendevamo dal Foglio
un articolo di Alessandro Gnocchi. Ve lo riproponiamo ora
integralmente, perché parla con grande chiarezza degli argomenti che
abbiamo appena introdotto:
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La Chiesa dell’arcobaleno – di Alessandro GnocchiDi fronte all’islam che sgozza, Francesco alza la bandiera del pacifismo. Contro Sant’Agostino
di Alessandro Gnocchi
20 settembre 2014
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Aleggia
un’orribile forza attorno allo spettacolo delle teste mozzate esibite
in favore di camera dai boia islamici. Un orrore impalpabile che sorge
dalla banalità del male esibito sul palcoscenico planetario come simbolo
di conquista religiosa e poi scende a serpeggiare sinuosa in platea. E
lì, in luogo dell’applauso, si compiace del povero balbettio di quel che
resta dell’occidente cristiano, convinto di placare il proprio terrore
mendicando dialogo presso un islam moderato inventato a propria immagine
e somiglianza.
Pia illusione originata in un
cattolicesimo che, nutrito di cascami illuministi e postilluministi, ha
smesso da tempo di alimentarsi dei simboli propri e dunque non è più in
grado di decifrare quelli altrui. Un cattolicesimo postilluminista che,
per contrappasso, ha avuto in eredità una ragione così debole da aver
abolito le differenze per manifesta impossibilità di comprenderle. Un
cattolicesimo disarmato, dimentico di se stesso, che tenta goffamente di
cogliere sfumature e gradazioni in un mondo che, nella sua radice
religiosa, non ne contempla.
Lo scriveva quasi vent’anni or sono don
Gianni Baget Bozzo in un saggio opportunamente titolato “Il futuro del
cattolicesimo”. “Il problema della contrapposizione tra cattolicesimo e
islam”, diceva Baget Bozzo, “è inteso poco nel mondo cattolico, che
ormai non considera più le differenze religiose come significative e
dimentica che per l’islam l’essenza della persona è segnata dalla
appartenenza alla comunità islamica. E’ la perdita di identità cattolica
tra i cattolici che rende a loro non comprensibile la permanenza della
identità islamica. (…) quello a cui assistiamo è la distruzione
dell’Oriente cristiano nel Mediterraneo. I cristiani fuggono verso terre
cristiane. E la coscienza stessa dei cattolici è sensibile alle piaghe
che affliggono l’uomo, non a quelle che, nel mondo comunista o islamico,
affliggono i credenti in quanto tali. Il nichilismo diviene la volontà
di non prendere in considerazione le cause che riguardano beni non
economici e materiali. La fame nel mondo mobilita i cattolici, come è
giusto, ma non vi è un istinto di solidarietà con i cristiani
perseguitati. (…) La decadenza del cattolicesimo nei cattolici spiega il
fatto che tra i cattolici l’offesa fatta ai cattolici non susciti un
sentimento di identificazione”.
Era il 1997, regnante Giovanni Paolo II,
e pare l’impietosa istantanea della chiesa non giudicante di Francesco,
inoltrata lungo una china che non può più venire spiegata con le sole
esigenze della diplomazia. La rinuncia al solo ipotizzare l’uso della
forza come strumento di difesa, l’equiparazione tra vittime che “hanno
diritto di essere salvate” e carnefici che “hanno diritto di essere
fermati”, la desistente attesa dei pronunciamenti dell’Onu, la
riesumazione del concetto di guerra solo per detestarla così come la
detesta il mondo hanno ben altra radice. Emanano una sonorità nuova che
stona non poco, per esempio, con l’”orrenda carneficina”, l’”inutile
strage”, il “suicidio d’Europa” con cui Benedetto XV stigmatizzò la
prima guerra mondiale, o con “l’inutilità delle guerre” della “Praeclara
congratulationis” di Leone XIII.
La chiesa ha sempre considerato la
guerra come un male, ma non ha mai pensato di poterla cancellare dal
cuore degli uomini. Nelle rogazioni, che dal V secolo appartengono al
sentire cattolico più profondo, le processioni oranti e penitenti
chiedevano a Dio la liberazione da pestilenze, carestie e guerre: “A
peste, fame et bello, libera nos Domine”. Ma lo facevano nella
convinzione che peste, fame et bello sono inevitabili stigmate di un
mondo segnato dal peccato originale. Proprio come “fulgure et
tempestate” e “flagello terraemotus”, per i quali si invocava “libera
nos Domine” con uguale pietà.
Dimentica di quanto era evidente anche
all’ultimo dei popolani in coda nelle processioni, la chiesa
postvolterriana si è innamorata di un’inesistente possibilità naturale
della convivenza pacifica. Ha preferito bandire la consapevolezza che la
violenza è nel cuore di ogni uomo, ha respinto la conseguente fatica di
disciplinarla e così ora è sul punto di perdere se stessa. “La guerra”
scrive in “Iota unum” Romano Amerio “non può essere l’estremo dei mali,
tranne per chi adotta la veduta irreligiosa che ravvisa nella vita, e
non nel fine trascendente della vita, il bene supremo, ed
equipollentemente nel piacere il destino dell’uomo”.
Una platea siffatta può solo sentirsi
paralizzata dal terrore davanti allo spettacolo offerto dai macellai
islamici. Quel che resta dell’occidente cristiano, la gran parte dei
pastori cattolici e del loro gregge, versati alle complicanze di ogni
genere di dialogo, sono ormai incapaci di comprendere l’essenziale
semplicità di un messaggio simbolico. Per quanto blasfemo sia, il gesto
dell’assassino rituale continua ad avere natura religiosa e per questo
non viene compreso. Raggiunge le corde di anime ormai non più abituate a
vibrare e cade in un silenzio, in una rinuncia, in una indifferenza che
nulla hanno di santo: in una trattativa banalmente mondana che i latori
del messaggio possono solo disprezzare come atto di resa
incondizionata.
Un atto religioso perverso si combatte e
si sconfigge solo con un atto religioso retto. Quando San Francesco si
trovò al cospetto del sultano, non si diede al dialogo e all’ascolto.
Nella “Leggenda maggiore” San Bonaventura narra che il santo invitò il
sovrano islamico ad accendere un gran fuoco e poi lo sfidò: “io, con i
tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale
fede, a ragion veduta, si deve tenere più certa e più santa”. E,
davanti al diniego del re, San Francesco incalzò: “entrerò nel fuoco da
solo. Se verrò bruciato, ciò venga imputato ai miei peccati; se invece
la potenza divina mi farà uscire sano e salvo, riconoscerete Cristo,
potenza di Dio e sapienza di Dio, come il vero Dio e signore, salvatore
di tutti”. Nei suoi “Ricordi”, frate Illuminato aggiunge come il santo
di Assisi spiegò al sultano che “nessun uomo è a noi così amico o così
parente, fosse pure a noi caro come un occhio della testa, che non
dovremmo allontanarlo, strapparlo e del tutto sradicarlo, se tentasse di
distoglierci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo
i cristiani giustamente invadono voi e le terre che avete occupato,
perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quanti
più uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare
il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi”.
Frate Illuminato si limita a chiosare
che “Tutti gli astanti rimasero ammirati per le risposte di lui”. Altre
fonti parlano della conversione del re musulmano che, per la prima
volta, aveva percepito una pace nuova poiché aveva sentito parlare di
una guerra nuova: l’una e l’altra estranee e antitetiche a quelle del
mondo.
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace”
dice Gesù ai suoi discepoli nel Vangelo secondo San Giovanni. “Non come
la dà il mondo, io la do a voi”. Tra quella coroncina di parole che
salvarono l’anima del sultano, il cattolicesimo contemporaneo ha finito
per isolare il semplice termine “pace” evaporando il senso di un
discorso così eloquente da essere persino didascalico: dal seguace di
Cristo si esige la costante lotta con il mondo, poiché non vi è pace
senza guerra. Ma questa è un’evidenza dalla quale il cristiano di oggi
preferisce ritrarsi accontentandosi dell’illusoria tregua offerta dal
mondo, imitazione scimmiesca di quella lasciata dal Salvatore.
Per questo la sua anima candida sussulta
al solo sentire il termine guerra, e ancora più abominevole gli pare il
concetto di guerra giusta. Elaborato sistematicamente da Sant’Agostino
nel “De Civitate Dei”, poi da San Tommaso nella “Summa”, affinato e
applicato fin sulla soglia degli ultimi decenni, tale concetto è stata
oscurato dalla mitologia della “Pacem in terris”, che lega saldamente
Giovanni XXIII all’attuale pontefice.
Secondo Agostino, una guerra è legittima
quando viene dichiarata dall’autorità competente, quando si muove
contro chi abbia commesso una colpa da punire e quando l’intenzione sia
pura, libera da odio, col fine di ottenere un bene ed evitare un male
maggiore. Ma, per quanto giusta, la guerra contiene un rischio che
atterrisce chiunque difetti di vita religiosa: la morte, quella propria e
quella altrui. Nel “De laude novae militiae” San Bernardo di
Chiaravalle dice che “la morte data o ricevuta per Cristo merita una
grande gloria, simile al martirio”. E, poco più avanti, spiega che il
“cavaliere con serenità uccide, con serenità muore”. Nel “Contra
Faustum”, Sant’Agostino scrive: “Che cosa infatti si trova da condannare
nella guerra? Forse il fatto che uomini destinati in ogni caso a morire
vi muoiono per domare uomini destinati a vivere in pace? Condannare
questo è proprio di uomini privi di fortezza, non di uomini religiosi”.
Si può solo vagamente immaginare quanto
simili parole e simili immagini siano scostanti per i cuori teneri dei
cristiani postilluministi. Lontane nello spirito più che nel tempo,
retaggio di un mondo barbaro in cui ancora non si aveva nozione della
“dignitatis humanae” che avrebbe aperto una nuova era nella chiesa e nel
mondo. Parole e immagini terribili perché riconducono l’uomo a
considerare ciò che continua a essere in ogni punto della storia e in
ogni angolo dell’universo, una creatura caduca destinata a morire. Ma
l’uomo d’oggi, quand’anche sia cristiano, vorrebbe illudersi di essere
immortale già in questa vita. Solo per questo, per alimentare la bulimia
del proprio ego tremebondo, non vuole le guerre per sé e lo interessano
poco o nulla quelle altrui. Perciò trova sempre più fascinosa la
tentazione di un cristianesimo senza Cristo, di una fede senza Cielo, si
una morale senza doveri, di una religioni senza ascesi, ormai pronto
per seguire l’anticristo che nei dialoghi di Vladimir Solovev lo ammalia
sussurrando dolcemente “Il Cristo ha portato la spada, io porterò la
pace”.
Sembra che il cattolicesimo del terzo
millennio abbia per solo padre Tertulliano, l’unico autore occidentale
di epoca patristica a ritenere sempre illecito l’uso delle armi. Non a
caso caduto nell’eresia montanista, questo antenato del pacifismo
cristiano vieta ai fedeli di impugnare le armi anche quando sia
necessario salvare i fratelli dal martirio e persino quando si renda
opportuno evitare alle anime più deboli il rischio dell’abiura. Ma,
coerente fino all’estremo nell’eresia pacifista, pretende che ogni
cristiano, anche il più debole e il più acerbo nella fede, abbia il
dovere di sopportare il martirio piuttosto che abiurare.
Persino lui, con quel suo disprezzo per i
relapsi che avevano abbandonato la fede in cambio della vita terrena,
oggi sarebbe incomprensibile e inaccettabile. Con il suo pacifismo non
era riuscito a sterilizzare la realtà della morte e l’impegno di una
decisione per il bene o per il male. Mentre il cristiano postilluminista
è atterrito dal fatto che qualsiasi azione debba avere un movente,
quindi sia morale e sottoposta a un giudizio. Invece che come cause,
preferisce considerare i moventi come sottoprodotti di scarto del
proprio agire, privi di rilevanza etica. Operazione tentata sul piano
intellettuale archiviando Aristotele come reperto di una superata
comunità dell’età del ferro. Tentativo apparentemente riuscito che,
divenuto moneta corrente nella teologia, nella filosofia, nella
predicazione, è naufragato su uno scoglio ineludibile come la morte,
emerso dalle acque postmoderne sotto forme ritualizzate come la guerra o
la violenza terroristica.
Proprio per il fatto di averlo bandito
come incomprensibile relitto del passato, modernità e postmodernità sono
indifese di fronte al rito. E, quando sono laiche e mondane, gli
oppongono la chiacchiera, quando invece hanno ancora un retaggio
religiose, lo sostituiscono con un simulacro.
In un caso e nell’altro, nulla dispone a
comprendere e a reagire efficacemente alla violenza che non cessa. Non
nei salotti in cui si troverebbe così delizioso avere come ospite un
vero tagliagole, non nelle chiese in cui il sacrificio di Cristo è stato
oscurato dalla festa della comunità e nulla deve evocare l’idea della
battaglia.
Un tempo la chiesa non esitava a
castigare violenza perché l’atto di religione più grande, la messa,
iniziava nella sacrestia quando il sacerdote indossava come primo
indumento l’amitto, simbolo dell’elmo, come difesa contro il demonio:
“Impone Domini, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos
incursus”. E poi, prima di salire all’altare che avrebbe letificato la
sua giovinezza, il celebrante invocava il Padre perché mandasse il suo
Angelo “qui custodiat, foveat, protegat, visitet atque defendat omnes
habitantes in hoc habitaculo”, perché custodisse, sostenesse,
proteggesse, visitasse e difendesse tutti gli abitanti di quella
navicella di combattenti che si apprestava a guidare in battaglia contro
il principe di questo mondo.
Ma ora persino il tre volte Sanctus
Dominus Deus Sabaoth, da tre volte Santo Signore Dio degli eserciti è
divenuto un più pacifico Signore Dio dell’universo: e quasi nessuno, a
quella lode, si inginocchia più. Ma una chiesa che non è capace di far
inchinare umilmente i propri fedeli davanti a Dio non può pretendere di
farli alzare orgogliosamente davanti agli uomini. Si può solo
accontentare di percorrere qualche tratto di strada insieme ora a questo
ora quello.
Però è una povera chiesa, la stessa che
nella Lauda LIII di Jacopone da Todi lamenta i tremendi effetti della
pace mondana: “O pace amara, come m’hai sì afflitta/ Mentre fui in
pugna, io stetti dritta;/ or lo riposo m’ha presa e sconfitta;/ el
blando Dracone m’ha sì venenato”.
Sette secoli più tardi gli fa eco G.K.
Chesterton in un saggio su Dickens: “La nostra civiltà moderna mostra
molti sintomi di cinismo e decadenza, ma di tutti i segnali della
fragilità moderna e della mancanza di principi morali, non ce n’è
nessuno così superficiale o pericoloso come questo: che i filosofi di
oggi abbiano cominciato a dividere l’amore dalla guerra, e a collocarli
in campi opposti. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo,
fosse pure Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece
che amare. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse
pure Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a
combattere. Una cosa implica l’altra. Una cosa implicava l’altra nel
vecchio romanzo e nella vecchia religione, che erano le due cose
permanenti dell’umanità. Non si può amare qualcosa senza voler
combattere per essa. Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo.
Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non è amore,
ma lussuria”.
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fonte: Il Foglio, 20.9.2014
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