Un
 articolo di Andrea Riccardi su Avvenire è la dichiarazione di resa 
incondizionata di una “chiesa” ormai incapace di comprendere ciò che 
accade. Invece sul laico Corriere, Angelo Panebianco ci riporta alla 
realtà. Riproponiamo un articolo di Alessandro Gnocchi, pubblicato quasi
 due anni fa, ma assolutamente attuale.
di Paolo Deotto
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È assai più interessante ciò che scrive oggi sul quotidiano della Cei, Avvenire, Andrea Riccardi,
 uomo che perfettamente incarna il modello di intellettuale cattolico 
(?) affermato, di uomo di potere in quota cattolica (?). Riccardi non ha
 alcun dubbio (i neretti sono nostri): “È un gesto rivelatore della disumanità dei terroristi e della loro assoluta mancanza di senso religioso, che invece abita in molti musulmani
 con il rispetto degli «uomini di Dio» e della preghiera. Giovani, 
folli, ingabbiati nella logica totalitaria dell’odio e nella propaganda 
del Daesh, hanno compiuto questo atto cruento”.
Chiaro, no? Non c’è odio religioso, 
assolutamente, i musulmani sono bravi e pieni di senso religioso… e poi,
 la solita tranquillizzante parola, che sistema tutto e tranquillizza 
tanto: “folli”. Insomma, anzitutto state 
tranquilli: è stato un atto di follia; invece noi, tanto sani ed 
equilibrati, siamo in grado di resistere.
Come? Ma è chiaro: “La Chiesa non 
scende in campo con i populisti contro l’islam. Ieri l’hanno colpita 
quanti sono imbevuti nell’odio della guerra santa, per trascinarla nello
 scontro e farla uscire dal suo atteggiamento sapiente e materno”.
E non manca naturalmente la professione di correttezza politica: “La
 porta aperta delle nostre chiese – quella attraverso cui sono entrati 
gli assassini di padre Hamel – contrasta con il moltiplicarsi di 
chiusure, di cancelli, di muri, frutto della paura”.
Serve un laico come Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera per riportarci con i piedi per terra, per guardare la realtà. Fin dal titolo: “Le troppe realtà negate nella guerra degli islamisti”. Panebianco è così scorretto da parlare di “guerra santa islamica” e da avvertire che il tentativo di relegare nell’ambito psichiatrico questi crimini è una fuga dalla realtà.
Ma andiamo alla chiusura dell’editoriale di Angelo Panebianco: “C’è un problema per le classi politiche che
 devono affrontare l’emergenza. C’è un problema per gli intellettuali, 
molti dei quali ancora impantanati, quando si parla di Islam, nelle 
trappole del politicamente corretto. E c’è un problema per le Chiese cristiane, quella cattolica in primis.
 L’impressione è che, per ragioni essenzialmente geo-religiose, una 
parte della Chiesa (non tutta certamente) si sia rassegnata a dare per 
perduta l’Europa secolarizzata, ad assumerla come definitivamente 
dimentica della sua tradizione cristiana, e che per questo stia 
scommettendo su altre aree del mondo. Perdendo di vista il fatto che un 
Cristianesimo che allentasse troppo i suoi legami con l’Europa 
diventerebbe molto diverso da ciò che è stato. Se questa impressione 
fosse esatta, allora bisognerebbe dire che quella parte della Chiesa 
starebbe commettendo un grave errore. L’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe aprirle gli occhi”.
È chiaro: Panebianco fa un’analisi 
politica dei fatti, non religiosa. Ma la fa con l’onestà di guardare ai 
fatti e ricordando ciò che troppi, Chiesa in testa, hanno per comodità 
dimenticato. Del resto, nemmeno Andrea Riccardi fa un’analisi religiosa 
dei fatti; si limita ad applicare gli slogan del pensiero unico 
dominante.
Il problema è questo: vedere la realtà, o
 negarla. Negarla può essere comodo al momento, ma porta solo disastri 
per il domani. E non è di certo un atteggiamento intelligente e 
religioso. È solo un tributo al conformismo che, negata la Fede, diventa
 il tranquillizzante rifugio per una “pace”, peraltro solo umana e che 
del resto non si raggiunge lo stesso, nemmeno con tante belle preghiere 
“interreligiose”. Essere in guerra e negare di esserci è semplicemente un suicidio.
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Quasi due anni fa, il 20 settembre 2014, riprendevamo dal Foglio
 un articolo di Alessandro Gnocchi. Ve lo riproponiamo ora 
integralmente, perché parla con grande chiarezza degli argomenti che 
abbiamo appena introdotto:
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La Chiesa dell’arcobaleno  –  di Alessandro GnocchiDi fronte all’islam che sgozza, Francesco alza la bandiera del pacifismo. Contro Sant’Agostino
di Alessandro Gnocchi
20 settembre 2014
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Pia illusione originata in un 
cattolicesimo che, nutrito di cascami illuministi e postilluministi, ha 
smesso da tempo di alimentarsi dei simboli propri e dunque non è più in 
grado di decifrare quelli altrui. Un cattolicesimo postilluminista che, 
per contrappasso, ha avuto in eredità una ragione così debole da aver 
abolito le differenze per manifesta impossibilità di comprenderle. Un 
cattolicesimo disarmato, dimentico di se stesso, che tenta goffamente di
 cogliere sfumature e gradazioni in un mondo che, nella sua radice 
religiosa, non ne contempla.
Lo scriveva quasi vent’anni or sono don 
Gianni Baget Bozzo in un saggio opportunamente titolato “Il futuro del 
cattolicesimo”. “Il problema della contrapposizione tra cattolicesimo e 
islam”, diceva Baget Bozzo, “è inteso poco nel mondo cattolico, che 
ormai non considera più le differenze religiose come significative e 
dimentica che per l’islam l’essenza della persona è segnata dalla 
appartenenza alla comunità islamica. E’ la perdita di identità cattolica
 tra i cattolici che rende a loro non comprensibile la permanenza della 
identità islamica. (…) quello a cui assistiamo è la distruzione 
dell’Oriente cristiano nel Mediterraneo. I cristiani fuggono verso terre
 cristiane. E la coscienza stessa dei cattolici è sensibile alle piaghe 
che affliggono l’uomo, non a quelle che, nel mondo comunista o islamico,
 affliggono i credenti in quanto tali. Il nichilismo diviene la volontà 
di non prendere in considerazione le cause che riguardano beni non 
economici e materiali. La fame nel mondo mobilita i cattolici, come è 
giusto, ma non vi è un istinto di solidarietà con i cristiani 
perseguitati. (…) La decadenza del cattolicesimo nei cattolici spiega il
 fatto che tra i cattolici l’offesa fatta ai cattolici non susciti un 
sentimento di identificazione”.
Era il 1997, regnante Giovanni Paolo II,
 e pare l’impietosa istantanea della chiesa non giudicante di Francesco,
 inoltrata lungo una china che non può più venire spiegata con le sole 
esigenze della diplomazia. La rinuncia al solo ipotizzare l’uso della 
forza come strumento di difesa, l’equiparazione tra vittime che “hanno 
diritto di essere salvate” e carnefici che “hanno diritto di essere 
fermati”, la desistente attesa dei pronunciamenti dell’Onu, la 
riesumazione del concetto di guerra solo per detestarla così come la 
detesta il mondo hanno ben altra radice. Emanano una sonorità nuova che 
stona non poco, per esempio, con l’”orrenda carneficina”, l’”inutile 
strage”, il “suicidio d’Europa” con cui Benedetto XV stigmatizzò la 
prima guerra mondiale, o con “l’inutilità delle guerre” della “Praeclara
 congratulationis” di Leone XIII.
La chiesa ha sempre considerato la 
guerra come un male, ma non ha mai pensato di poterla cancellare dal 
cuore degli uomini. Nelle rogazioni, che dal V secolo appartengono al 
sentire cattolico più profondo, le processioni oranti e penitenti 
chiedevano a Dio la liberazione da pestilenze, carestie e guerre: “A 
peste, fame et bello, libera nos Domine”. Ma lo facevano nella 
convinzione che peste, fame et bello sono inevitabili stigmate di un 
mondo segnato dal peccato originale. Proprio come “fulgure et 
tempestate” e “flagello terraemotus”, per i quali si invocava “libera 
nos Domine” con uguale pietà.
Dimentica di quanto era evidente anche 
all’ultimo dei popolani in coda nelle processioni, la chiesa 
postvolterriana si è innamorata di un’inesistente possibilità naturale 
della convivenza pacifica. Ha preferito bandire la consapevolezza che la
 violenza è nel cuore di ogni uomo, ha respinto la conseguente fatica di
 disciplinarla e così ora è sul punto di perdere se stessa. “La guerra” 
scrive in “Iota unum” Romano Amerio “non può essere l’estremo dei mali, 
tranne per chi adotta la veduta irreligiosa che ravvisa nella vita, e 
non nel fine trascendente della vita, il bene supremo, ed 
equipollentemente nel piacere il destino dell’uomo”.
Una platea siffatta può solo sentirsi 
paralizzata dal terrore davanti allo spettacolo offerto dai macellai 
islamici. Quel che resta dell’occidente cristiano, la gran parte dei 
pastori cattolici e del loro gregge, versati alle complicanze di ogni 
genere di dialogo, sono ormai incapaci di comprendere l’essenziale 
semplicità di un messaggio simbolico. Per quanto blasfemo sia, il gesto 
dell’assassino rituale continua ad avere natura religiosa e per questo 
non viene compreso. Raggiunge le corde di anime ormai non più abituate a
 vibrare e cade in un silenzio, in una rinuncia, in una indifferenza che
 nulla hanno di santo: in una trattativa banalmente mondana che i latori
 del messaggio possono solo disprezzare come atto di resa 
incondizionata.
Un atto religioso perverso si combatte e
 si sconfigge solo con un atto religioso retto. Quando San Francesco si 
trovò al cospetto del sultano, non si diede al dialogo e all’ascolto. 
Nella “Leggenda maggiore” San Bonaventura narra che il santo invitò il 
sovrano islamico ad accendere un gran fuoco e poi lo sfidò: “io, con i 
tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale
 fede, a ragion veduta, si deve tenere più certa e più santa”. E, 
davanti al diniego del re, San Francesco incalzò: “entrerò nel fuoco da 
solo. Se verrò bruciato, ciò venga imputato ai miei peccati; se invece 
la potenza divina mi farà uscire sano e salvo, riconoscerete Cristo, 
potenza di Dio e sapienza di Dio, come il vero Dio e signore, salvatore 
di tutti”. Nei suoi “Ricordi”, frate Illuminato aggiunge come il santo 
di Assisi spiegò al sultano che “nessun uomo è a noi così amico o così 
parente, fosse pure a noi caro come un occhio della testa, che non 
dovremmo allontanarlo, strapparlo e del tutto sradicarlo, se tentasse di
 distoglierci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo
 i cristiani giustamente invadono voi e le terre che avete occupato, 
perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quanti 
più uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare
 il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi”.
Frate Illuminato si limita a chiosare 
che “Tutti gli astanti rimasero ammirati per le risposte di lui”. Altre 
fonti parlano della conversione del re musulmano che, per la prima 
volta, aveva percepito una pace nuova poiché aveva sentito parlare di 
una guerra nuova: l’una e l’altra estranee e antitetiche a quelle del 
mondo.
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace” 
dice Gesù ai suoi discepoli nel Vangelo secondo San Giovanni. “Non come 
la dà il mondo, io la do a voi”. Tra quella coroncina di parole che 
salvarono l’anima del sultano, il cattolicesimo contemporaneo ha finito 
per isolare il semplice termine “pace” evaporando il senso di un 
discorso così eloquente da essere persino didascalico: dal seguace di 
Cristo si esige la costante lotta con il mondo, poiché non vi è pace 
senza guerra. Ma questa è un’evidenza dalla quale il cristiano di oggi 
preferisce ritrarsi accontentandosi dell’illusoria tregua offerta dal 
mondo, imitazione scimmiesca di quella lasciata dal Salvatore.
Per questo la sua anima candida sussulta
 al solo sentire il termine guerra, e ancora più abominevole gli pare il
 concetto di guerra giusta. Elaborato sistematicamente da Sant’Agostino 
nel “De Civitate Dei”, poi da San Tommaso nella “Summa”, affinato e 
applicato fin sulla soglia degli ultimi decenni, tale concetto è stata 
oscurato dalla mitologia della “Pacem in terris”, che lega saldamente 
Giovanni XXIII all’attuale pontefice.
Secondo Agostino, una guerra è legittima
 quando viene dichiarata dall’autorità competente, quando si muove 
contro chi abbia commesso una colpa da punire e quando l’intenzione sia 
pura, libera da odio, col fine di ottenere un bene ed evitare un male 
maggiore. Ma, per quanto giusta, la guerra contiene un rischio che 
atterrisce chiunque difetti di vita religiosa: la morte, quella propria e
 quella altrui. Nel “De laude novae militiae” San Bernardo di 
Chiaravalle dice che “la morte data o ricevuta per Cristo merita una 
grande gloria, simile al martirio”. E, poco più avanti, spiega che il 
“cavaliere con serenità uccide, con serenità muore”. Nel “Contra 
Faustum”, Sant’Agostino scrive: “Che cosa infatti si trova da condannare
 nella guerra? Forse il fatto che uomini destinati in ogni caso a morire
 vi muoiono per domare uomini destinati a vivere in pace? Condannare 
questo è proprio di uomini privi di fortezza, non di uomini religiosi”.
Si può solo vagamente immaginare quanto 
simili parole e simili immagini siano scostanti per i cuori teneri dei 
cristiani postilluministi. Lontane nello spirito più che nel tempo, 
retaggio di un mondo barbaro in cui ancora non si aveva nozione della 
“dignitatis humanae” che avrebbe aperto una nuova era nella chiesa e nel
 mondo. Parole e immagini terribili perché riconducono l’uomo a 
considerare ciò che continua a essere in ogni punto della storia e in 
ogni angolo dell’universo, una creatura caduca destinata a morire. Ma 
l’uomo d’oggi, quand’anche sia cristiano, vorrebbe illudersi di essere 
immortale già in questa vita. Solo per questo, per alimentare la bulimia
 del proprio ego tremebondo, non vuole le guerre per sé e lo interessano
 poco o nulla quelle altrui. Perciò trova sempre più fascinosa la 
tentazione di un cristianesimo senza Cristo, di una fede senza Cielo, si
 una morale senza doveri, di una religioni senza ascesi, ormai pronto 
per seguire l’anticristo che nei dialoghi di Vladimir Solovev lo ammalia
 sussurrando dolcemente “Il Cristo ha portato la spada, io porterò la 
pace”.
 Sembra che il cattolicesimo del terzo 
millennio abbia per solo padre Tertulliano, l’unico autore occidentale 
di epoca patristica a ritenere sempre illecito l’uso delle armi. Non a 
caso caduto nell’eresia montanista, questo antenato del pacifismo 
cristiano vieta ai fedeli di impugnare le armi anche quando sia 
necessario salvare i fratelli dal martirio e persino quando si renda 
opportuno evitare alle anime più deboli il rischio dell’abiura. Ma, 
coerente fino all’estremo nell’eresia pacifista, pretende che ogni 
cristiano, anche il più debole e il più acerbo nella fede, abbia il 
dovere di sopportare il martirio piuttosto che abiurare.
Persino lui, con quel suo disprezzo per i
 relapsi che avevano abbandonato la fede in cambio della vita terrena, 
oggi sarebbe incomprensibile e inaccettabile. Con il suo pacifismo non 
era riuscito a sterilizzare la realtà della morte e l’impegno di una 
decisione per il bene o per il male. Mentre il cristiano postilluminista
 è atterrito dal fatto che qualsiasi azione debba avere un movente, 
quindi sia morale e sottoposta a un giudizio. Invece che come cause, 
preferisce considerare i moventi come sottoprodotti di scarto del 
proprio agire, privi di rilevanza etica. Operazione tentata sul piano 
intellettuale archiviando Aristotele come reperto di una superata 
comunità dell’età del ferro. Tentativo apparentemente riuscito che, 
divenuto moneta corrente nella teologia, nella filosofia, nella 
predicazione, è naufragato su uno scoglio ineludibile come la morte, 
emerso dalle acque postmoderne sotto forme ritualizzate come la guerra o
 la violenza terroristica.
Proprio per il fatto di averlo bandito 
come incomprensibile relitto del passato, modernità e postmodernità sono
 indifese di fronte al rito. E, quando sono laiche e mondane, gli 
oppongono la chiacchiera, quando invece hanno ancora un retaggio 
religiose, lo sostituiscono con un simulacro.
In un caso e nell’altro, nulla dispone a
 comprendere e a reagire efficacemente alla violenza che non cessa. Non 
nei salotti in cui si troverebbe così delizioso avere come ospite un 
vero tagliagole, non nelle chiese in cui il sacrificio di Cristo è stato
 oscurato dalla festa della comunità e nulla deve evocare l’idea della 
battaglia.
Un tempo la chiesa non esitava a 
castigare violenza perché l’atto di religione più grande, la messa, 
iniziava nella sacrestia quando il sacerdote indossava come primo 
indumento l’amitto, simbolo dell’elmo, come difesa contro il demonio: 
“Impone Domini, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos 
incursus”. E poi, prima di salire all’altare che avrebbe letificato la 
sua giovinezza, il celebrante invocava il Padre perché mandasse il suo 
Angelo “qui custodiat, foveat, protegat, visitet atque defendat omnes 
habitantes in hoc habitaculo”, perché custodisse, sostenesse, 
proteggesse, visitasse e difendesse tutti gli abitanti di quella 
navicella di combattenti che si apprestava a guidare in battaglia contro
 il principe di questo mondo.
Ma ora persino il tre volte Sanctus 
Dominus Deus Sabaoth, da tre volte Santo Signore Dio degli eserciti è 
divenuto un più pacifico Signore Dio dell’universo: e quasi nessuno, a 
quella lode, si inginocchia più. Ma una chiesa che non è capace di far 
inchinare umilmente i propri fedeli davanti a Dio non può pretendere di 
farli alzare orgogliosamente davanti agli uomini. Si può solo 
accontentare di percorrere qualche tratto di strada insieme ora a questo
 ora quello.
Però è una povera chiesa, la stessa che 
nella Lauda LIII di Jacopone da Todi lamenta i tremendi effetti della 
pace mondana: “O pace amara, come m’hai sì afflitta/ Mentre fui in 
pugna, io stetti dritta;/ or lo riposo m’ha presa e sconfitta;/ el 
blando Dracone m’ha sì venenato”.
Sette secoli più tardi gli fa eco G.K. 
Chesterton in un saggio su Dickens: “La nostra civiltà moderna mostra 
molti sintomi di cinismo e decadenza, ma di tutti i segnali della 
fragilità moderna e della mancanza di principi morali, non ce n’è 
nessuno così superficiale o pericoloso come questo: che i filosofi di 
oggi abbiano cominciato a dividere l’amore dalla guerra, e a collocarli 
in campi opposti. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, 
fosse pure Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece 
che amare. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse 
pure Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a 
combattere. Una cosa implica l’altra. Una cosa implicava l’altra nel 
vecchio romanzo e nella vecchia religione, che erano le due cose 
permanenti dell’umanità. Non si può amare qualcosa senza voler 
combattere per essa. Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo.
 Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non è amore, 
ma lussuria”.
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fonte: Il Foglio, 20.9.2014
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